
Alle mie antenate devo l’arte del ricamo, ancora oggi conservo gelosamente pizzi e centrini, calzini di lana spaiati, cuscini su cui mi adagio la sera stanca, ricamati sapientemente da mia madre, mia nonna, dalla madre di mia nonna.
Ognuna di noi può ricercare, nella sua storia familiare, qualche donna che custodiva o custodisce tutt’ora un rapporto speciale con tessuti e filati. Siamo in qualche modo, più o meno consapevolmente, tutti interconnessi con fibre vegetali e animali che da sempre ci scaldano e proteggono: il lino, la lana, la canapa, il cotone, sono trama di cui siamo ricoperti, in un abbraccio infinito, in un’alternanza senza tempo, stagione dopo stagione.
Ricamo fin da quando ho iniziato a tenere in mano un ago, inizialmente per imitare mia madre, per starle accanto e condividere con lei quello spazio fatto di silenzio e concentrazione; cercavo di infilare il cotone nella cruna e tentare di copiare qualche semplice disegno a punto croce, trovato in uno dei tanti libri in casa. Da adulta ho riscoperto questa arte, facendola diventare parte del mio quotidiano e della mia creatività, uno strumento ora prezioso che mi accompagna e mi risana.
Amo il suono dell’ago che attraversa il tessuto, come il Matto dei Tarocchi si muove timido e impacciato mentre intraprende il suo viaggio. Si apre al mondo, creando un foro, un piccolo spazio, in cui tutto può accadere. Ogni punto diventa un microcosmo, fatto di croci, di catenelle, di tratti curvi o retti.
Il mio respiro si muove inseguendo la mano che tesse e i pensieri diventano calmi e lievi, il corpo si adagia sul lavoro che si sta materializzando come un albero che muove le fronde assecondando il vento.

Provo a disegnare sulla tela, come farei con una matita, scelgo con cura i colori del cotone, le sfumature della lana, decido cosa voglio lasciare impresso, un animale, un simbolo o semplicemente linee e curve.
La mente si ferma ad ascoltare i pensieri, gli occhi osservano le mani muoversi a ritmo, sono un tutt’uno con il telaio. Dove finisce la trama, iniziano le mie mani, dove finiscono i miei occhi inizia l’ordito.
Annodo, per ricordarmi chi sono, da dove vengo, quale parte di me voglio tenere stretta senza lasciarla andare via.
Rammendo, pezzi di me abbandonati, dimenticati che punto dopo punto si riavvicinano a rinsaldare un legame. Attraverso il filo torno ad essere me Stessa, nella mia unicità e complessità.
Sfilaccio, lascio andare zavorre e ciò che non fa più parte di me. Mi alleggerisco, scivolo come acqua che scorre.
Ogni gesto sulla tela si riflette sul mio corpo, sui miei pensieri, intreccio cotone e mi tengo stretta per non perdermi nel flusso della vita. Arrotolo gomitoli cercando costantemente il filo della matassa.
Attraverso il ricamo mi ascolto e mi comprendo, le ferite si fanno meno dolorose, la felicità è riflessa nei filati dorati.
La vita, se la si osserva con il cuore di una ricamatrice, è un continuo vortice di pensieri e atti aggrovigliati, in attesa di essere delicatamente districati e riavvolti da mani sapienti e gentili.

Antonella DI DEDDA, nata nel 1981, vive e lavora a Torino dove svolge anche la sua attività artistica.
È psicologa e fototerapeuta.
Ha iniziato ad avvicinarsi al filo sin da piccola, ma solo da adulta ne comprende la reale potenzialità. Il ricamo diventa un linguaggio simbolico che le permette di connettere le sue emozioni attraverso l’ago e i filati. Dal 2020 espone in mostre personali tra Milano e Piemonte, e partecipa a diversi progetti collettivi.
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